Una tecnica della psicosintesi: il buon umore
Questo tema può forse sorprendere qualcuno e indurlo a domandarsi come mai il buon umore, che è uno stato d’animo, una disposizione interna, possa venir considerato una «tecnica». Spero che riuscirò a dimostrare che il buon umore può esserlo, o più precisamente che può essere suscitato, sviluppato o mantenuto con esercizi psicologici.
Una tecnica della psicosintesi: il buon umoreQuesto tema può forse sorprendere qualcuno e indurlo a domandarsi come mai il buon umore, che è uno stato d’animo, una disposizione interna, possa venir considerato una «tecnica». Spero che riuscirò a dimostrare che il buon umore può esserlo, o più precisamente che può essere suscitato, sviluppato o mantenuto con esercizi psicologici – e ce ne molto bisogno, specialmente ora! Ma vi è di più: il buon umore è connesso direttamente col tema della Volontà. Ciò richiede un chiarimento; alcuni potrebbero fare l’obiezione pregiudiziale: il buon umore è uno stato d’animo, che si ha o no, ma che non può essere creato artificialmente con la volontà. Questa obiezione solleva il problema generale dei rapporti fra la volontà e le altre condizioni e attività psichiche, e particolarmente dei rapporti fra volontà da un lato ed emozioni e sentimenti dall’altro. È vero che non si possono cambiare i nostri stati d’animo direttamente, con una imposizione volontaria. L’uso imperativo e repressivo della volontà suscita spesso reazioni contrarie e fallisce al suo scopo. Questo è il grande errore commesso dai moralisti e dagli educatori autoritari con l’uso dei metodi basati sui divieti, minacce, condanne, punizioni. Invece si può esercitare un’azione efficace su tutte le funzioni psichiche, si possono cambiare le disposizioni di stati d’animo e dirette mediante tecniche psicologiche adatte che sono messe in opera da una volontà illuminata e abile; cercherò di dimostrarlo riguardo al buon umore. Non credo che occorra una definizione teorica del buon umore; tutti sanno pressappoco cos’è. Del resto le definizioni nel campo psicologico servono poco, poiché i fatti psichici sono conosciuti soprattutto mediante l’esperienza diretta. Invece può essere utile indicare alcuni caratteri del buon umore e i suoi rapporti con altri stati d’animo e attività psichiche. Il buon umore ha stretti rapporti e affinità con l’umorismo. Il buon umore potrebbe essere chiamato un «fratello minore» dell’umorismo: l’uno tende a suscitare l’altro e ne favorisce le manifestazioni. Però essi sono diversi: ci può essere umorismo senza buon umore e buon umore senza umorismo. L’umorismo può essere satirico, ironico, talvolta anche mordente; invece il buon umore è sereno, calmo, sorridente. Il buon umore può anche esser considerato come un fratello minore della gioia; le apre la via, ne favorisce la manifestazione, e, inversamente, la gioia include uno stato d’animo di buon umore. Ne parlerò più oltre trattando della letizia francescana. Anche i rapporti del buon umore col giuoco sono intimi; il giuoco promuove il buon umore e questo dispone al giuoco. Ma vediamo quello che più importa: come si può suscitare, coltivare e mantenere il buon umore? Ci sono due gruppi di metodi: il primo comprende le tecniche per eliminare gli ostacoli che ne impediscono l’espressione; il secondo è formato dalle tecniche per la sua evocazione diretta. Uno dei maggiori ostacoli è l’irritazione. Anche nel caso dell’irritazione, il combatterla direttamente mediante l’imposizione della volontà non serve, o, se riesce momentaneamente, può avere effetti nocivi e produrre poi reazioni violente. Il modo più diretto per eliminare l’irritazione, i sentimenti di ostilità e gli impulsi aggressivi collegati con questa, è quello della «catarsi», cioè lo scaricare l’irritazione mediante attività innocue che abbiano un significato simbolico: spaccar della legna; strappare dei giornali e riviste, dar pugni sul letto o contro un punching-ball (pallone di cuoio appeso). Un modo più preciso, e direi più raffinato, per farlo è quello descritto nell’articolo di G. e S. Mydans, Ma che tipi sono questi giapponesi (pubblicato in «Selezione», dicembre 1969). «In Giappone si attribuisce molta importanza al controllo di gruppo e all’autocontrollo individuale. Nell’ultramoderno stabilimento della Matsushita Electric c’è appunto una sala dove gli operai che covano sentimenti repressi vanno a ritrovare l’autocontrollo. Chiunque, quando ne sente la necessità, può lasciare il posto di lavoro per andare in quella sala, e 15 o 20 persone al giorno se ne servono liberamente. In essa ci sono due fantocci rivestiti di grossa tela, e dei bastoni con i quali colpirli. Il più piccolo dei due fantocci è stato talmente malmenato che attraverso la paglia si intravede l’armatura in fil di ferro della testa, e sullo stomaco la tela mostra un largo squarcio. Il fantoccio non raffigura un superiore, ma il proprio io». Un altro modo per scaricare l’irritazione è lo scrivere lettere di recriminazione, critiche, anche ingiurie, contro le persone che hanno suscitato la nostra ostilità… e poi non mandarle. Tutti questi metodi sono efficaci poiché le soddisfazioni simboliche spesso appagano quanto quelle reali. Questa è una delle utilità dei simboli. Il metodo usato in Giappone ha inoltre un valore particolare in quanto lascia affiorare, e poi scarica, l’irritazione e l’ostilità contro noi stessi; questa è importante e va presa in considerazione poiché produce facilmente, mediante un meccanismo inconscio, una autopunizione che può arrivare a forme estreme. In realtà è una reazione contro una parte di noi che non vorremmo avere e l’obbiettivarla in un fantoccio e inveire contro di esso è un buon mezzo per liberarsene. Ma vi sono metodi diretti superiori che si possono usare dopo, o oltre, quello della scarica; si può dire che la scarica elimina l’irritazione del momento, ma per estirparne le radici è opportuno fare un esame critico e riflettere sugli effetti nocivi che l’ira ha su noi stessi. Essi sono stati così definiti: «L’ira è far pagare a noi stessi le colpe altrui»! Il riconoscimento della inutilità dell’ira è espresso argutamente in un detto cinese: «Se c’è rimedio, perché ti arrabbi? E se rimedio non c’è, che t’arrabbi a fare?». Una delle espressioni più frequenti dell’ostilità, è il criticismo. Di questo ho trattato già [Nel capitolo 17 del mio libro Psicosintesi – Armonia della vita (Roma, Edizioni Mediterranee 1971)]. Qui mi limiterò a citare il detto di Henry Ford, il grande costruttore di automobili: «Non trovar difetti, trova rimedi; di lamentarsi siamo capaci tutti». Molti dei nostri malumori e anche delle nostre sofferenze e infelicità derivano dalle critiche altrui, data l’importanza che diamo alle opinioni che gli altri hanno di noi. Ma quelle critiche sono inevitabili; saremo sempre criticati; è meglio saperlo ed accettarlo a priori! In un testo buddistico, il Dhammapada, che risale a qualche secolo avanti Cristo, è scritto quanto segue: «È antico questo detto, o Atula: criticano quelli che parlano, criticano quelli che tacciono, anche quelli che parlano poco sono criticati; incensurato non c’è nessuno al mondo». Un motto che aiuta a vincere quella suscettibilità è: « Dicono… che cosa dicono? Lasciali dire!». Ricordiamo anche il proverbio orientale: «I cani abbaiano, la carovana passa». Un modo efficace per arrivare a non reagire, né esternamente né internamente, a coloro che ci sono ostili, che possono essere ritenuti nemici, è il riconoscimento della loro grande utilità. Inayat Khan ha detto: «I miei amici mi addormentano dolcemente, i miei nemici mi tengono sveglio». Alfred Adler – uno psicoterapeuta il quale si è occupato soprattutto di favorire i retti rapporti umani, la socialità, eliminando l’autoaffermazione ostile – ha scritto queste belle parole: «I miei nemici mi hanno sempre benedetto; è vero che quando non combattono le mie idee se ne vanno via con esse e dicono che sono le loro, ma così le diffondono maggiormente. Se quello che credo di aver scoperto è detto freudiano o no, non mi riguarda; credo che sia vero e di utilità permanente all’umanità e ciò mi rende felice». Riconosciamo dunque l’utilità dei «nemici»! Inoltre per una inimicizia bisogna essere in due; se uno è mio nemico ma io non sono suo nemico, non c’è inimicizia. Un altro grave ostacolo al buon umore è la commiserazione di sé, l’auto-impietosimento. È molto diffuso e nocivo e si accompagna spesso con un senso malsano di compiacimento. Esso dà origine ad altri stati d’animo negativi: l’invidia, il risentimento, l’impulso alla rivalsa. L’auto-impietosimento può esser combattuto ed eliminato mediante il riconoscimento dell’universale condizione umana di dolore, e soprattutto pensando all’immenso numero di esseri umani che soffrono tanto più di noi (malati, reclusi, isolati, disperati). Ricorderò i versi del Metastasio che, in una forma settecentesca, dicono in modo semplice una grande verità: «Se a ciascun l’intero affanno, / si vedesse in fronte scritto / quanti in ver che invidia fanno / ci farebbero pietà». Un altro ostacolo, minore ma pure molto diffuso, al buon umore è l’impazienza. Questa è stata così espressa in un detto cinese: «Si vede un uovo e si vorrebbe già sentirlo cantare». Quindi una delle tecniche psicologiche da sviluppare sarebbe «l’arte di aspettare». Infine un grande ostacolo al buon umore è la preoccupazione. Anche su questa ci sarebbe molto da dire, ma non posso farlo in questa occasione. Essa è così argutamente indicata da un detto toscano: «Fasciarsi la testa prima di averla rotta». E anche: «Oggi è quel domani di cui ieri ti preoccupavi tanto». A questo punto è giusto riconoscere che, come di ogni altra qualità buona, così anche del buon umore si può fare uso eccessivo o inopportuno. Ci sono condizioni serie della vita gravi sofferenze, ardui problemi umani, individuali e collettivi, che col buon umore non si risolvono. Essi vanno considerati e affrontati con la dovuta serietà. Ma dovremmo farlo soltanto per questi, mentre spesso «prendiamo sul serio» tante cose che non lo meritano; sperperiamo, per così dire, il nostro capitale di serietà in moneta spicciola, in modo che non ce ne resta abbastanza per le cose veramente importanti. Perciò: serietà in tutto quello che lo merita e lo richiede, ma in tutto il resto, buon umore. Ma veniamo alle tecniche attive per lo sviluppo del buon umore. Il metodo generale è quello di coltivare gli stati d’animo e sentimenti opposti a quelli che ostacolano il buon umore, e suscitare quelli che lo esprimono direttamente. Come per tutte le altre qualità che vogliamo sviluppare, si tratta di aprirsi agli influssi che emanano, che irradiano le qualità desiderate. Come possiamo esporci agli influssi fisici benefici: aria, sole, raggi ultravioletti, ecc., così si può e si dovrebbe aprirsi di proposito all’influsso dei «raggi» psichici e spirituali benefici. Vi sono numerosi modi per farlo. Il più semplice e facile è quello della lettura di scritti o l’ascolto di musiche adatte. Vi sono molti libri atti a suscitare il buon umore; ne cito soltanto alcuni. Anzitutto i romanzi di P. G. Wodehouse, pieni di un umorismo frizzante ma bonario, nel quale sono rappresentati gli aspetti comici, le debolezze e le stupidità di numerosi personaggi della «commedia umana»: aristocratici e popolani, ragazze e giovani innamorati, artisti e intellettuali, editori e gangsters, inglesi, americani e francesi, sono «messi in scena» con sorridente imparzialità. Segnalo particolarmente il romanzo Lasciate fare a Psmith, nel quale il protagonista si muove fra quei «personaggi» con costante buon umore e se la cava con abilità in una serie di circostanze difficili e complicate. Probabilmente è un modello idealizzato dell’autore. Vi sono umoristi di maggior levatura, ma in loro prevalgono o la satira mordace e amara, come nello Swift, o il senso di compassione come nel Manzoni dei Promessi Sposi. Vi sono però esempi nei quali la satira resta bonaria e sorridente. Fra gli antichi ricorderò quelle di Orazio; fra le moderne la commedia La satira e Parini di Paolo Ferrari. Particolarmente atti a suscitare buon umore sono i libri di Toddi; ne citerò più oltre parlando delle applicazioni specifiche del buon umore. Fra le musiche ricorderò anzitutto quelle vivaci e serenatrici di Haydn. Ne I Maestri Cantori di Wagner le parti nelle quali sono derisi i musicisti «accademici» sono di un umorismo fine e divertente. Ma si può dire che il capolavoro dell’umorismo musicale sia Il Barbiere di Siviglia di Rossini; il brano in cui Figaro esalta gioiosamente se stesso mette irresistibilmente di buon umore. Non mancano, a un livello più modesto, canzoni e canzonette atte a far spianare le fronti corrugate e ad atteggiar le labbra al sorriso. La migliore a questo scopo è il noto Valzer del buonumor, che sotto la sua leggerezza contiene moniti che non esito a chiamare spirituali: quello che è vano cercar nelle cose terrene la felicità (chiamata «vana chimera»), e che conviene accogliere con atteggiamento distaccato e sorridente fortuna e avversità. «Prender conviene – Sia il male che il bene – Fischiandoci sopra così»). È consigliabile di suonarne il disco nei momenti di depressione, irritazione, malumore. Una tecnica, essa pure semplice e facile ma molto efficace, è l’uso di Parole Evocatrici [Una serie di cartoncini con tali parole e un articolo sul modo di usarle si possono avere dall’Istituto di Psicosintesi]. Nello stesso modo si possono usare frasi, motti, immagini adatte. Vi è poi un Esercizio mediante il quale si può evocare in modo diretto e coltivare metodicamente il buon umore: è L’Esercizio della Serenità nel quale si può sostituire alla Serenità il Buon Umore. Il testo di questo esercizio così modificato, è dato a pagina 25. Ma il metodo più profondo per neutralizzare tanto la ribellione quanto l’auto-commiserazione è l’accettazione. Non una accettazione passiva, non il subire con rassegnazione; si tratta di cominciare con l’accettare, ma fare dopo quello che è possibile – se e quando lo sia – per cambiare la situazione. Un bell’esempio: «Un vecchio negro era sempre di buon umore nonostante i molti guai che aveva avuti. A chi gli domandò come era riuscito a mantenere il suo buon umore e la sua calma, rispose: «Ebbene, ho imparato a cooperare con l’inevitabile». Quanta saggezza in queste parole! Una espressione un po’ ingenua e che può far sorridere, ma che è fondamentalmente giusta, fu quella di Margherita Fuller, una discepola di Emerson, la quale un giorno andò da lui e gli disse piena di gioia: «Accetto l’universo». Emerson la guardò e rispose: «Ti conviene accettarlo.». Un’altra tecnica psicologica molto utile è «l’agire come se ». Molte volte non c’è tempo e modo per eliminare uno stato d’animo, ad esempio di depressione e d’irritazione, eppure occorre affrontare la situazione; allora si può comportarsi come se non avessimo quello stato d’animo. Sorridere, parlare con benevolenza con la persona che vorremmo trattare male. Il distogliere l’attenzione da uno stato d’animo aiuta a disidentificarsi e ad attenuarlo. Soprattutto elimina i «circoli viziosi» che spesso creiamo: se uno è irritato e se ne accorge, s’irrita con sé per essere irritato; si accorge che ciò è stupido, ma allora s’irrita per essere irritato di essere irritato; e così via! Lo stesso avviene con la depressione; un depresso si accorge di essere depresso, e ciò lo rende più depresso, e così di seguito. Se invece distoglie l’attenzione e la volge allo stato d’animo opposto o se almeno «agisce come se» non fosse depresso attenua o domina temporaneamente quello stato d’animo negativo. Ma si può fare di più: coltivare la letizia interiore e il buon umore nonostante la sofferenza; non aspettare di avere eliminato la sofferenza, ma mantenere anche mentre essa dura uno stato d’animo sereno, positivo. Questo è possibile, data la molteplicità dell’animo umano, dato che ci sono varie parti di noi che possono funzionare (e generalmente funzionano!) in modo indipendente luna dall’altra. Questo è stato detto molto bene da Campanella: «In mesta carne, d’animo giocondo». Mentre il corpo soffre, l’animo può essere sereno, anzi lieto. Per arrivare a ciò bisogna non identificarsi col proprio corpo, considerarlo come uno strumento, chiamarlo come diceva con benevolo umorismo San Francesco, «frate asino». Questo ci porta a parlare della letizia francescana. S. Francesco aveva molto sofferto eppure era lieto e coltivava la letizia nei suoi frati. Diceva che dobbiamo essere «giullari di Dio» per attirare le anime a Dio; infatti la gioia, la letizia, il buon umore sono magnetici. C’è un episodio significativo nella sua vita: egli andava cercando un luogo dove creare un convento: arrivò a Poppi e davanti al Signore di Poppi, il conte Guidi, disse un sermone sul tema «Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto». Esso piacque tanto al conte Guidi che gli offrì il Monte della Verna. Un altro modo per coltivare un sereno buon umore è il riconoscimento della relatività di ogni avvenimento, il rendersi conto che gli avvenimenti hanno spesso effetti imprevisti ed anche contrari alla loro apparenza o alla loro realtà immediata. Questo è ben messo in evidenza nella parabola cinese riportata da Lin Yu Tang nel libro L’importanza di vivere. «Un vecchio contadino viveva col figlio sulla cima di un colle e un giorno perdette il cavallo. I vicini andarono ad esprimergli il loro rincrescimento per questa disgrazia, ma il vecchio rispose: «Come fate a sapere se è una disgrazia?». Qualche giorno dopo il suo cavallo fece ritorno con un seguito di cavalli e i vicini vollero congratularsi con lui per questo colpo di fortuna. Il vecchio replicò: «Come fate a sapere che è una fortuna?». Il figlio cominciò a cavalcare quei cavalli e un giorno si spezzò una gamba. I vicini andarono a esprimere il loro rincrescimento, ma il vecchio di rimando disse: «Come fate a sapere che sia una sfortuna?». Poco dopo ci fu la guerra e siccome il figlio era storpiato, non fu costretto a parteciparvi». Ricordiamo sempre questa relatività. L’efficacia di un atteggiamento positivo, sorridente, verso la vita è stata così espressa da Inayat Khan: «Chi guarda la vita con orrore è al disotto della vita; chi prende seriamente la vita è entro la vita; chi sorride alla vita con un lieto sorriso, si eleva sopra il mondo». Dovrei ora parlare delle applicazioni del buon umore, ma lo farò brevemente per non stancarvi … ed evitare di mettervi di cattivo umore. Nella psicoterapia il buon umore ha ampie applicazioni poiché gran parte dei disturbi psicosomatici e psichici dipende appunto dalle cause di cui ho parlato: irritazione, risentimento, esigenze, depressione, impietosimento di sé. È quindi ovvio che nella misura in cui eliminiamo quegli stati d’animo col buon umore esso è curativo. Mi soffermerò un poco di più sulle applicazioni ai rapporti inter-personali e sociali. Il buon umore è un elemento necessario nella vita di famiglia. Molte infelicità, anzi molti fallimenti famigliari (separazioni, divorzi) sono dovuti all’atmosfera di malumore, criticismo, esigenze, ecc. di cui ho parlato. Si può dire che il buon umore è un lubrificante dell’ingranaggio della vita interindividuale, soprattutto nei rapporti intimi della famiglia. Vi sono dei libri di Toddi che ne parlano con semplicità ed arguzia convincenti: uno è Synetikon che ha il sottotitolo Mastice per la felicità coniugale;un altro: La felicità col manico (1). __________ (1) Le loro edizioni sono esaurite e non vengono ristampati dato che… non contengono nulla di pornografico né di violento. Sarebbe utile promuoverne la ristampa e la diffusione; dovrebbero far parte dell’«armadio psicofarmaceutico» di ogni medico (biblioterapia). Credo1 che potrebbero aver una buona vendita nonostante i «difetti» suaccennati. __________ Un punto molto importante nei rapporti interpersonali che è stato ben messo in evidenza da Paul Tournier, uno dei pionieri della nuova medicina umanistica, è che non bisogna mai affermare di aver ragione, e soprattutto quando la si ha o si crede di averla! Tournier dice: «È pericoloso aver ragione; aver ragione è sempre stata la fonte di tutte le intolleranze». Raccomando molto questa massima preziosa. Quando si ha torto si può ancora intendersi, ma quando si ha ragione, e si afferma di averla, sorgono o si acuiscono i conflitti. Infatti dimostrare agli altri di avere ragione è un umiliarli, è offendere la loro vanità, il loro prestigio, quindi si hanno delle meritate reazioni di ostilità. In generale buoni rapporti umani sono creati e favoriti dal buon umore. È stato detto: «Il sorriso è un’arma potentissima: serve anche per rompere il ghiaccio». Ora si parla tanto di isolamento, di incomunicabilità; ebbene un sorriso benevolo può rompere barriere artificiali di diffidenza, sospetti, timore di non esser compresi. Il buon umore dovrebbe esser applicato costantemente nell’insegnamento di ogni materia. Le lezioni, soprattutto nelle scuole secondarie, spesso, troppo spesso, vengono fatte in modo da render noioso quello che sarebbe interessante e piacevole, mentre tutto potrebbe essere insegnato in modo attraente e anche divertente. In questo modo si ottiene la cooperazione dell’inconscio (nel quale le nozioni devono penetrare per esservi conservate e tenute a disposizione), mentre se lo si annoia l’inconscio non «registra». Esiste qualche libro basato su questa legge psicologica. Per la matematica, nella quale potrebbe sembrare difficile applicarla, vi è il libro di Toddi: I numeri questi simpaticoni, ovvero la facile amicizia con l’aritmetica. Vi è poi: La chimica in versi, di Alberto Cavaliere e forse qualche altro che non conosco. Ma sono pochi e così poco usati! Un campo importante nel quale il buon umore dovrebbe trovare ampie applicazioni è quello dei rapporti umani nella vita sociale, particolarmente quelli «gerarchici» fra dirigenti e subordinati: negli uffici governativi, nell’esercito, nelle aziende di ogni genere, e nelle famiglie, ove potrebbe attenuare molti contrasti fra genitori e figli e anche aiutare a risolvere la piccola ma spinosa questione di rapporti con le persone di servizio o, come ora sono chiamate, «collaboratrici famigliari». Le applicazioni sono ovvie e non richiedono spiegazioni. Mi limiterò a ricordare una storiella che mette in evidenza in modo arguto i «nefasti» del cattivo umore: «Una bella, anzi una brutta mattina, un ministro ha questionato con la moglie; naturalmente la moglie ha avuto l’ultima parola e lui è uscito di casa arrabbiato. Arrivato al ministero fece chiamare il Sottosegretario e lo trattò male. Questi non potè replicare, ma se ne andò via infuriato e trattò male il Direttore Generale. Questi a sua volta fece lo stesso con il Capo Divisione; e così via, fino a che si arrivò all’usciere. Questi non aveva nessuno sotto di lui, ma non potendo far altro, diede un calcio al gatto». È facile immaginare l’atmosfera di quel ministero in quel giorno e il modo nel quale ha funzionato. Se invece il ministro avesse usato qualcuna delle tecniche psicologiche esistenti per scaricare la sua aggressività, oppure se almeno avesse voluto e saputo comportarsi «come se» fosse stato di buon umore, l’atmosfera sarebbe stata del tutto diversa e il ministero e tutti i dipendenti avrebbero funzionato meglio con vantaggio di tutta la nazione… e anche del gatto. Quanto sarebbe necessario il buon umore nel campo politico! Se i dittatori, grandi e piccoli, e tutti quelli che comandano, avessero del buon umore, ciò potrebbe aiutare a evitare delle guerre. Un altro metodo molto consigliabile per le persone in «alto loco», sia in politica che altrove, è il coltivare il senso delle proporzioni, A questo serve bene l’astronomia: l’osservazione del cielo stellato o le immagini delle costellazioni e delle galassie. È un metodo che veniva usato da Teodoro Roosevelt, quando era Presidente degli Stati Uniti. Narra un suo amico che non di rado la sera diceva: «Usciamo, andiamo a guardare le stelle»; centrava una nebulosa nella costellazione di Andromeda, che si vede a mala pena ad occhio nudo, e proseguiva: «Questa galassia è formata da centinaia di milioni di stelle, altrettanti soli, e di queste galassie ce ne sono milioni e milioni nell’Universo. Ebbene, ora siamo abbastanza piccoli, andiamo a letto». D’altra parte – si potrebbe anzi dire inversamente – è altrettanto giusto riconoscere e ricordare il valore di ogni essere umano e di ogni sua attività, per quanto modesta e umile. Questo aiuta a fare con buona volontà e con buon umore, qualsiasi cosa anche se per sé stessa sia faticosa, noiosa, in apparenza insignificante, mentre è in realtà altrettanto necessaria quanto le azioni di maggiore risalto e che vengono considerate più importanti. Tale giusto apprezzamento e la conseguente buona disposizione interna, sono messi bene in evidenza dalla storia de I tre tagliapietre: «Un visitatore entrò nel cantiere ove nel Medioevo si stava costruendo una cattedrale. Incontrò un tagliapietre e gli chiese: «Che cosa stai facendo?» – L’altro rispose con malumore: «Non vedi, sto tagliando delle pietre». Così egli mostrava che considerava quel lavoro increscioso e senza valore. Il visitatore passò oltre e incontrò un secondo tagliapietre; anche a questo chiese cosa faceva, «Sto guadagnando di che vivere per me e la mia famiglia», rispose l’operaio in tono calmo, mostrando una certa soddisfazione. L’altro proseguì ancora e, trovato un terzo tagliapietre, gli rivolse la stessa domanda. Questi rispose gioiosamente: «Sto costruendo una cattedrale». Egli aveva compreso il significato e lo scopo del suo lavoro, si era reso conto che la sua opera umile era altrettanto necessaria quanto quella dell’architetto e quindi in un certo senso aveva lo stesso valore della sua. Perciò eseguiva il suo lavoro volentieri, anzi con entusiasmo. Ricordiamo l’esempio di quel saggio operaio, riconosciamo e restiamo sempre consapevoli che, per quanto le nostre capacità sembrino limitate, per quanto sembrino modeste e umili le nostre mansioni, in realtà siamo particelle della Vita Universale, partecipiamo allo svolgimento del Piano Cosmico, siamo «collaboratori di Dio». In questo modo potremo accettare ogni situazione, svolgere ogni compito volonterosamente, lietamente, con costante buon umore. Esercizio per evocare il Buon Umore
* * * Questo esercizio può essere fatto (con le modificazioni del caso) per evocare e sviluppare ogni altra qualità; ad esempio: Coraggio – Letizia – Pazienza – Serenità – Volontà. |