Il terzo atto è una composizione autonoma di 1552 versi, una lunghezza consona alla tragedia greca. Era stato preceduto da un primo abbozzo del 1880 dal titolo Helena im Mittelalter, Elena nel Medioevo. Goethe riprese il lavoro nel 1827 definendolo Helena. Klassisch-romantische Phantasmagorie, Elena, fantasmagoria classico-romantica, titolo che venne espunto allorché la tragedia fu posta a formare il terzo atto del Faust II.
Terzo atto.Il terzo atto è una composizione autonoma di 1552 versi, una lunghezza consona alla tragedia greca. Era stato preceduto da un primo abbozzo del 1880 dal titolo Helena im Mittelalter, Elena nel Medioevo. Goethe riprese il lavoro nel 1827 definendolo Helena. Klassisch-romantische Phantasmagorie, Elena, fantasmagoria classico-romantica, titolo che venne espunto allorché la tragedia fu posta a formare il terzo atto del Faust II. Si compone di tre tempi: Vor dem Palaste des Menelas zu Sparta, Davanti al palazzo di Menelao a Sparta; Innerer Burghof, Corte interna; Arkadien, Arcadia. I personaggi sono: Elena; Forcide che vela Mefistofele; Faust; Linceo, il guardiano della torre; Euforione, il figlio di Elena e Faust; il coro delle prigioneiere troiane; Pantalide, corifea. È concepito anche questo come rappresentazione teatrale, dunque come teatro nel teatro, da realizzarsi con i mezzi della fantasmagoria, Wie von magischer Laterne, come con la lanterna magica (v. 5518). Euripide aveva concluso la sua narrazione lasciando partire Elena e Menelao dall’Egitto. Goethe la riprende, sorvolando sul viaggio, e i due naviganti sono appena approdati in Grecia. Il coro delle prigioniere è di donne troiane, quindi il viaggio di ritorno è stato intrapreso dalla Frigia e non dall’Egitto, mentre il coro delle ancelle di Elena in Euripide era formanto da fanciulle greche (v. 193). Elena, augurandosi di poter lasciare alle spalle il suo fatale e convulso passato dal momento in cui, recatasi al tempio di Venere per adempiere ai riti, era stata rapita dal predatore frigio, non sa se arriva a Sparta come regina o come vittima. Menelao le ha ordinato di entrare nella reggia, passare in rivista la servitù e poi apparecchiare un sacrificio, ma non le ha rivelato chi dovranno immolare. Elena entra nell’atrio del palazzo silenzioso, ma nessuno le viene incontro; nel cuore della casa, accanto al focolare scorge accovacciata a terra la figura velata di una donna imponente, che pare dormire o meditare. Le comanda di riprendere il lavoro, ma quella alza il braccio destro quasi a scacciarla. Quando Elena, salendo gli scalini, sta per raggiungere in alto il talamo che alberga il tesoro, la donna misteriosa si alza di scatto, le preclude il passo, apparendo in tutta la sua alta, scarna e mostruosa figura. La Forcide compare tra i battenti della porta di bronzo e gli spettatori possono scorgerla e comprendere fin da subito che si tratta di Mefistofele, che durante la notte di Valpurga aveva preso le sembianze di una graia. La propensione naturale all’equilibrio porta Goethe a costruire questa figura laida e orrenda e ad affiancarla a quella della leggendaria bellezza della regina di Sparta. Forcide-Mefisto insulta le ancelle del coro; esse sarebbero prole di guerra, allevata fra le battaglie, vogliosa di maschi, avida come sciami di cicale. Elena le difende, l’hanno aiutata a sopportare i lunghi anni dell’assedio e le angosce del viaggio del ritorno. Tra la Forcide e le coretidi ancelle si sviluppa una contesa, sconcia nei toni, che si riverbera anche sulla regina, che pare comandare invano. Nell’alterco sono state evocate immagini funeste dalle quali Elena si sente sospinta verso l’orco, benché si trovi ormai sul suolo della patria. Lei sarà per il futuro un Traum- und Schreckbild un’orrenda immagine di sogno (v. 8840), devastatrice di città. Forcide la incalza rinfacciandole episodi della sua vita a noi qui già noti; Elena ha visto molti uomini infiammati di passione per lei: Teseo, Ercole. Fu chiusa nella rocca di Afidno in Attica, liberata dai fratelli Castore e Polluce. Elena amò Patroclo, l’immagine così somigliante di Achille. Il padre la diede in sposa a Menelao; da quelle nozze nacque Ermione. Ma poi giunse un ospite bello e Elena abbandonò ogni cosa per concedersi agli inesausti piaceri dell’amore. Indi i colpi finali: si dice che lei apparve ein doppelhaft Gebild, un’immagine, una formazione, una forma doppia (v. 8872) vista contemporaneamente a Ilio e in Egitto. L’emozione di queste insinuanti affermazioni provoca nella regina una reazione di dolore, sconcerto e turbamento: Verwirre wüsten Sinnes Aberwitz nicht gar. / Selbst jetzo, welche denn ich sei, ich weiß es nicht. (vv. 8874-75) Non confondere del tutto il vaneggiare del mio scomposto pensiero, / anche ora, quale dunque io sia, io non lo so. Forcide non ha pietà e continua ad infierire; si dice che Achille, che già ti amava contro ogni decisione del fato, si sia unito a te risalendo dal cavo regno delle ombre. Qui Elena cede e sviene, perde i sensi tra le braccia delle coretidi dicendo: Ich als Idol, ihm dem Idol, verband ich mich. / Es war ein Traum, so sagen ja die Worte selbst. / Ich schwinde hin und werde selbst mir ein Idol. (vv.8879-81). Io come idolo, a lui come idolo, mi unii. Era un sogno, e lo dicono le parole stesse, / svanisco e divengo un idolo a me stessa. Una sola altra volta, nel Faust I, Goethe usa il termine Idol. Nella notte di Valpurga Faust vede da lontano una bella fanciulla pallida che assomiglia a Margherita. Mefistofele lo ammonisce a non guardare quell’immagine (Idol, v. 4190) stregata e senza vita. Poche altre volte Goethe fa ricorso nella sua opera a questo termine [18], ma il suo uso non va disgiunto da ispirazione di stampo baconiano. In questo nostro contesto Goethe usa il termine greco Idol e non Gespenst. Achille risale dal regno delle ombre, proviene dunque dal mondo infero. Per Elena la situazione è onirica. La sua coscienza come Idol passa dalla disidentificazione alla perdita più totale del sé. Elena diviene Idol a se stessa. Dopo lo svenimento di Elena le ancelle del coro auspicano che l’anima della regina, già pronta a fuggire, rimanga e aderisca alla figura delle figure, alla più eccelsa figura che il sole abbia mai illuminato. Elena si riprende. La Elena della tradizione è svanita. Quella che abbiamo davanti appartiene solo a Goethe e alla sua personale creatività. Dopo lo svenimento Elena è tornata in sé. Ha raggiunto il culmine della mancanza di identità, una sorta di morte, dalla quale tornare come per una ulteriore esistenza. Elena non è mai stata una sola, è stata molteplici figure, è nell’immaginario altrui tante Elene diverse, tante da non sapere più per se stessa chi lei sia. Una, nessuna, centomila. [19] Dopo lo svenimento, abbandonato lo stato di Idol, Elena è viva, è stata portata in vita (v. 7439) pronta per essere reinterpretata, e la rappresentazione teatrale continua. I timori della regina di Sparta sono fondati. Menelao ha previsto che le vittime da sacrificare siano la regina stessa e le sue ancelle. Un modo per salvarsi dalla morte ci sarebbe, spesso a chi è saggio e lungimirante l’impossibile si rivela possibile (v. 8965; v. 7487; Euripide v. 811). Forcide narra loro che nella valle montana dietro a Sparta, percorsa dall’Eurota, con il Taigeto alle spalle, si è insediata vent’anni prima (ma occorre intendere venti secoli) una stirpe ardita, giunta dalle nebbie cimmerie. Il capo è un uomo di aspetto piacevole, è di buon carattere e ardimentoso. Elena accetta di recarsi nel suo castello, anche perché è colta da terrore al ricordo delle orrende mutilazioni che Menelao aveva inflitto a Deifobo, che l’aveva conquistata in moglie, dopo la morte in battaglia del fratello Paride. (Il rimando evidente è al libro VI dell’Eneide, vv. 494-534). La scena trascolora dal palazzo di Menelao nel castello medievale di Faust. A condurre la trasformazione è Ermes con il caduceo in mano. Si sente il canto dei cigni, che in alchimia indica la decomposizione del Mercurio, il pianeta, il metallo, la divinità dal colore verde, che presiede alla fase della trasmutazione. [20] Mentre Faust, giungendo in Grecia, ha viaggiato nelle spazio, Elena lo raggiunge nel tempo, un vero e proprio ritorno in vita, venti e più secoli dopo la precedente, una sorta di trasmigrazione animica, nella quale le reminiscenze delle molteplici esistenze offrono un sustrato sul quale rinnovare la presente identità. Forcide è sparita. È Pantalide, la corifea a descrivere l’entrata di Faust, che compare in alto solenne sullo scalone accompagnato dai paggi. Al suo fianco un progioniero, reo di non aver annunciato l’arrivo della regina. La pena sarebbe la morte, ma Elena fa mostra di conoscere il principio dell’audiatur altera pars, e vuole ascoltare l’imputato. Linceo si giustifica. Attendeva il sole (die Sonne è femminile in tedesco) e la dea (il sole) abbagliandolo è nata da sud. Elena non vuole tornare ad essere causa di sventura, lo fu quando ebbe doppia esistenza, non vuole esserlo per la terza e per una quarta volta, (Troia, Egitto, Sparta e l’attuale esistenza). Mentre Linceo parla, Elena, che si era sempre espressa in trimetri giambici e in tetrametri trocaici (correttamente imitati da Goethe in tedesco) sente per la prima volta la rima e vuole imparare anche lei ad esprimersi con tanta dolcezza, dove un suono accarezza quello successivo. Faust le indica come esprimersi in questo nuovo idioma. Si assiste ad un rapporto ierogamico, durante il quale viene concepita la poesia. [21] Per un istante come in un sogno spariscono tempo e spazio, trapassanti l’uno nell’altro e intrecciati di antico e di ignoto. Il famulus Wagner lo aveva detto. Il modo usuale di procreare è ormai destituito di ogni dignità e lasciato agli animali. Faust ha ottenuto l’agognato connubio con Elena, e Mefistofele-Forcide non se ne è accorto, non è in grado di cogliere l’istante per ghermire Faust; non ha, ancora una volta, capito nulla né dell’essere umano, come di norma gli capita, né della cultura classica, lui povero demonio cristiano. Beffa sublime. Una delle tante cui gli capiterà di soggiacere ancora. C’è una ulteriore ragione per la quale nemmeno la conquista di Elena, risponde al raggiungimento dell’estrema bellezza dell’istante. Quel perfetto raggiungimento Faust lo aveva già ottenuto nel contatto col divino, nell’evocazione dello Spirito della Terra (vv. 482-514), che gli concede un dialogo della durata del simbolico numero di trentuno versi, contatto, la cui irripetibilità condiziona ogni altro accadimento successivo, tingendolo di straziante malinconica insoddisfazione del vivere e vanificando a priori qualunque possibile accordo con entità che non siano a quello spirito almeno paritetiche. La scena muta nuovamente. Il signore medievale e colei che, nata dal dio più alto (Zeus), è figlia del mondo primigenio, si lasciano alle spalle il passato per vivere liberi in Arcadia la loro felicità. Goethe non dimentica di abbattere di nuovo la quarta parete. Gli spettatori in platea potranno seguire la soluzione di quei prodigi degni di fede. Nasce un figlio, di nome Euforione, già fanciullo come il figlio di Maia, tiene in mano una lira, ha il capo soffuso di un’aureola splendente. (La descrizione è un omaggio a Lord Byron che morì nel 1824 nella guerra di liberazione greca.) Euforione è il vero frutto della creazione superiore, è concepito con la parola, tramite l’apparato, l’organo della fonazione, è il frutto di quell’istante nel quale Elena e Faust si congiungono creando poesia e attuando l’ideale del connubio tra la grecia classica e il medioevo germanico. Euforione, nel suo anelito di libertà, si spinge troppo in alto sulle rocce e novello Icaro, si slancia nell’aria; per qualche istante i suoi abiti lo sorreggono, il suo capo manda raggi e una scia di luce lo segue, poi il fanciullo cade ai piedi dei genitori. La sua parte corporea, di natura ignea, sparisce. L’aureola sale come una cometa al cielo, e a terra rimangono il suo abito, il mantello e la lira. La più alta poesia vive un solo istante di perfezione. La voce di Euforione implora la madre di non lasciarlo solo nel regno oscuro. Il coro delle prigioniere troiane, che a sua volta, sull’onda di Elena, aveva appreso ad usare la rima romanza, intona una trenodia che, sul modello delle Troiane di Euripide, torna alla metrica classica. Elena, conscia che felicità e bellezza non hanno unione duratura (vv. 9939-9940; Euripide, Elena, vv. 304-305) si getta ancora una volta nelle braccia di Faust e tornando a parlare in greco, nel suo abituale trimetro giambico, implora Persefone di accoglierla col figlio. La parte fisica di Elena sparisce, solo l’abito e il velo di lei rimangono nelle braccia di Faust, ma non a lungo. Fino a che Faust avrà la forza di resistere essi lo sorreggeranno nell’etere. A questo punto Goethe mostra quale ispirazione egli abbia ulteriormente tratto da Euripide. Gli abiti di Elena si trasformano in nubi, circondano Faust, lo portano in alto nell’etere e con lui, in esse avvolto, si allontanano. Cordoglio, destino evolutivo per Pantalide, ritorno agli elementi della natura delle ancelle troiane e inno ad Apollo e a Dioniso concludono la fantasmagoria teatrale del terzo atto. Nel quarto, in alta montagna, tra acuminate cime rocciose, la nube si appoggia su uno spuntone di roccia pianeggiante, si apre e lascia scendere l’inusuale passeggero, per poi allontanarsi maestosa verso oriente, suggerendo una divina immagine femminile simile a Giunone, a Leda, a Elena, mentre una leggera strisciolina di nebbia sale più in alto nell’etere recando con sé la dolce reminiscenza della prima giovinezza (Margherita). Nel quinto atto il richiamo a Elena è dato dalla definizione che la accomuna alla Mater Gloriosa. La Somma Dominatrice del mondo, vergine, madre, regina e dea, giunge con Margherita incontro a Faust che, abbandonando l’abito eterico si avvia verso sfere superiori dell’essere. L’epiteto che definisce la Mater Gloriosa è Göttern ebenbürtig (v. 12012) della stessa natura degli dei. Di nascita pari agli dei. Così Faust aveva definito Elena nel momento in cui si era riproposto di riportarla in vita (v. 7440). La Elena di Goethe fa la sua entrata nell’opera come immagine stregata. Prosegue, nella prima evocazione, come fantasma provenente dal regno delle Madri, in compagnia di Paride, dove è lei a prendere l’iniziativa del corteggiamento. È in questo contesto che si presenta la prima domanda: se Elena sia quella autentica. La presenza di Elena continua con la ricerca di Faust, che dopo averla veduta non può più fare a meno di lei, prosegue con le parole e con i ricordi di coloro che l’hanno conosciuta e hanno contribuito a formare la leggenda che la circonda. Nel momento in cui, sottoposta alla perfidia della camuffata androginia mefistofelica, non avendo più contezza della propria identità, perde coscienza e diviene idolo a se stessa, Elena, in una sorta di morte, rinnova il suo essere. Può allora divenire una Elena, che non perde la sua grecità primigenia, ma si adatta ad una nuova esistenza medievale, nella quale apprende anche il poetare cortese. Al suo commiato torna da Persefone, regno dal quale Faust, novello e più accorto Orfeo, era riuscito a ricondurla alla luce, non come immagine, non come simulacro, non come fantasma, bensì viva, di una vita superiore, una vita che potremmo definire eterica e che al suo spegnersi non lascia dietro di sé alcuna traccia di fisicità. I tratti della originaria regina di Sparta si sono ampliati, dilatati, estesi e non si lasciano più circoscrivere. Elena, come Margherita, come la Mater Gloriosa, come il regno delle Madri, come Makarie nei Wilhelm Meisters Wanderjahre, Gli anni di pellegrinaggio di Guglielmo Meister, è anche uno dei molteplici risvolti del terzo aspetto, quello femminile, di ogni triade divina, che Goethe condensa nell’espressione Das Ewig-Weibliche, l’Eterno Femminino (v. 12110). La prisca questione intorno all’autenticità cessa di avere rilievo di fronte all’autentico archetipo che ogni questione sopravanza. __________ Note18. Si veda il lemma Idol, nel GoetheWörterbuch: http://woerterbuchnetz.de/GWB/call_wbgui_py_from_form? sigle=GWB&mode=Volltextsuche&firsthit=0&textpattern=&lemmapattern=idol&patternlist=L:idol&lemid=JI00081&hitlist=7997186 ^ 19. La citazione non è casuale. Pirandello era un accanito lettore di Goethe, dal quale trasse più di una ispirazione. ^ 20. Del canto del cigno, che indica la morte e la decomposizione del mercurio, si può leggere nel commento alla sesta chiave in Vom grossen Stein der uhralten Weisen. Cfr.: Fr. Basilii Valentini Benedictiner Ordens Chymische Schriften alle, / so viel derer verhanden/ anitzo Zum Ersten mahl zusammen gedruckt/ auß vielen so wohl geschriebenen als gedruckten Exemplaren vermehret und verbessert und in Zwei Theile verfasset, Hamburg/ In Verlegung Johann Naumanns und Georg Wolff, Anno M.DC. LXXVII, p. 43-46. ^ 21. Si veda al proposito Maria Franca Frola, Faust e Elena: apprendere la rima, In Ianuam linguarum reserare, saggi in onore di Bona Cambiaghi, a cura di Cristina Bosisio, Le Monnier Università, Milano 2011, pp. 94-100. ^ |